Morfologie n.38 – LA TESTIMONIAL – No, il cortisone non ‘tira su’ di Carla Massi

L’idea mi è venuta una sera mentre stavo per andare al compleanno di un’amica. Lo specchio rimandava un viso perfettamente tondo e gonfio e un fisico con svariati chili in più. Colpevole il cortisone che ero costretta a prendere per mettere a tacere gli effetti della mia arterite gigantocellulare. Una malattia rara reumatica.

Presi un vecchio badge che avevo in un cassetto della scrivania, ci incollai una spilla e scrissi: “Non sono ingrassata/prendo cortisone”. La fissai alla giacca e andai alla festa. Più tranquilla e disinvolta che mai. Un palesare la mia condizione, anche se non richiesta, per raccontare al mondo come mai il mio viso, il mio corpo (e anche il mio umore) erano stati stravolti. Riuscii, così, a evitare gli sguardi indagatori, le facce sorprese, l’imbarazzo di chi mi ritrovava così diversa.

In tanti mi dissero che era stato un gesto che mi potevo risparmiare. Che Carla era sempre Carla anche con un viso gonfio, i chili di troppo, una deambulazione a volte faticosa. Rispondevo che non era così. Che anche io, come loro, avevo bisogno, forse pure con quella spilla, di abituarmi alla novità. Un modo per far capire agli altri, senza ombra di vittimismo, che non stavo a mio agio e facevo fatica ad accettarmi. Perché, anche ad accettarsi, ci vuole tempo.

Parliamo di una malattia, quella reumatica, che ti accompagna una vita intera, bussa alla porta in modo più o meno violento quando e come vuole, ti fa male anche se, esternamente, sembri sempre la stessa persona. Fosse solo per il gonfiore del cortisone sarebbe più facile accettare la diagnosi. In realtà, una volta che cominci a capire come sarà il tuo futuro e impari a fare amicizia con i dolori, sei solo a metà dell’opera. Perché, fuori dal tuo microcosmo (oltre la famiglia, gli amici, il day hospital di reumatologia) chi conosce la tua malattia? Fuori trovi tanti che ti dicono di avere dolori anche loro, dicono che ti vedono bene e non sembri malata, dicono che hai un bell’aspetto comunque.

Ti rendi subito conto che parli ma non sanno di che parli. Che se avessi il diabete o il cancro non dovresti usare tante parole per spiegare. Per dire che, magari, se non ti curi come si deve, perdi la vista oppure non riesci più neppure a vestirti da solo. E altro ancora. Succede che smetti di raccontare e, a volte, se qualcuno ostinatamente non riesce a capire lo mandi pure a quel paese. Una volta, al lavoro, chiesi di evitare per un periodo dei turni che finivano all’una e mezzo la notte. Per non arrivare a casa, lo sanno bene tutti i pazienti, troppo stanca e svegliarmi poi la mattina più malandata del solito.

Me lo concessero per un breve periodo e poi, il dirigente, salutandomi disse: <Forza, il cortisone tira su! Rende euforici>. Uscii da quella stanza sbattendo la porta. Fregandomene delle possibili ripercussioni. Mi sentivo nel giusto. Mi sentivo di rappresentare tante donne e tanti uomini.

Siparietti personali a parte, il paziente reumatico deve lottare, oltre che contro la patologia, anche contro un mondo che (pur senza cattiveria) se dici di avere una malattia reumatica, ti guarda perplesso. E non sa che dire. Quindi, per togliere tutti dall’imbarazzo, si lascia perdere senza addentrarsi troppo nei dettagli. Senza spiegare che puoi essere paziente anche se hai 15 anni, che ci sono dei giorni in cui l’astenia ti blocca, che l’umore non sempre ti accompagna e che, spesso, a fare una lunga passeggiata non ce la fai.

Se non hai segni evidenti di una malattia sembra che questa non esista. Incredibile, eppure è così. Raramente qualcuno ti fa domande e, minimamente, è interessato a saperne di più. Sui danni che questa condizione può regalare al tuo corpo e alla tua mente. La convinzione generale, per noi difficile da sconfiggere, è quella che il paziente reumatico è anziano, ha i dolori in inverno e quando piove. Se provi a dire che queste malattie sono circa 150 e che anche i ragazzi ne soffrono, scendono tutti dalle nuvole. Restando fermi nelle loro convinzioni. Come se quella fetta di popolazione, misconosciuta, dovesse restare tale.

Uno strano meccanismo che, negli anni, ho cominciato a capire e sentire (pesante) sulle mie spalle. Per questo il mio appello è quello di spiegare a chi sta male che deve attrezzarsi bene contro questo sconosciuto risvolto della malattia. All’inizio lo sottovaluti visto che sei impegnato, per anni, ad avere la diagnosi giusta, ma poi tocchi con mano questa strana situazione. C’è chi si rinchiude, chi prova a raccontarsi come può, chi, come me, sta ancora cercando le parole per dirlo…

 

FOTO: Carla Massi,

giornalista de Il Messaggero