REUMAstories, Cristina racconta la sua esperienza come caregiver della mamma

Con molto piacere ho avuto notizia della vostra associazione, ho visto le vostre iniziative e le vostre attività. Avere uno scambio con chi si trova a vivere le stesse esperienze sono convinta sia molto utile e aiuta a uscire da quel mondo nel quale ci isoliamo quando viviamo giornalmente una malattia.

La mia esperienza vuole portare il punto di vista dei familiari di un malato, dei problemi pratici collegati all’assistenza e alla cura e dei risvolti psicologici che gravano su chi si trova ad accudire un paziente, sia a casa sia in ospedale.

Mia mamma era malata da circa 20 anni di sclerosi sistemica autoimmune, caratterizzata nel suo caso da alterazioni degenerative di alcuni organi interni, in particolare i polmoni; negli ultimi anni la malattia ha portato a una fibrosi polmonare diffusa con associati disturbi della motilità esofagea. La malattia, con varie terapie, è stata tenuta sotto controllo, grazie soprattutto alla grande professionalità e umanità che abbiamo trovato nel reparto di Pneumologia della Clinica Universitaria Le Scotte di Siena. La terapia farmacologica ha permesso a tutti noi di condurre una vita abbastanza normale, caratterizzata da alcune attenzioni, con inciampi e ricadute ma tutto sommato senza traumi ulteriori. 

Tutto questo fino ai primi giorni di gennaio 2019, quando un banale raffreddore ha fatto di colpo precipitare la situazione. Ricovero in codice rosso, iperventilazione con Cpap, decisione di procedere con la sedazione profonda, miglioramento lento, dimissione. In questa prima fase del ricovero ci siamo trovati a dover prendere decisioni improvvise (no intubazione, sedazione profonda) che in quel momento non sai come affrontare, nonostante noi ne avessimo parlato con lei moltissime volte. La mia mamma sapeva – meglio di noi – che evoluzione avrebbe avuto la sua malattia e ci aveva più volte dichiarato le sue volontà; noi abbiamo cercato di rispettarle ma i dottori di fronte a un minimo miglioramento si dicono obbligati a somministrare la terapia necessaria, in questo caso la Cpap (che abbiamo avuto modo di scoprire sia quasi sempre rifiutata – invano – dai pazienti) oltre a quelle farmacologiche. 

Il ritorno a casa ha aperto un periodo difficilissimo, si sono acuiti i disturbi all’esofago tanto da portare alla nutrizione parenterale, fisioterapia respiratoria, terapia con ossigeno 24 ore al giorno, costante precipitare dei livelli di saturazione dell’ossigeno. Nonostante l’attivazione dell’assistenza infermieristica ci siamo trovati, da soli, a dover gestire un malato notte e giorno, incerti su ogni azione da compiere: saturazione a 45, alzi l’ossigeno ma non troppo perché altrimenti avrai troppa CO2 nel sangue, cambi la flebo ma si rompe la vena, chiami il medico di famiglia (che per fortuna viene a domicilio e ti aiuta per quel che può), chiedi di fare un emogas a domicilio ma ti guardano come se tu avessi chiesto di andare sulla luna. E tutte le notte insonni che passi accanto a lei con una mano sul suo torace per sentire se respira, chiudi gli occhi per dormire 5 minuti ma non ce la fai perché il tempo ti scappa tra le mani, nel buio della notte speri solo che si addormenti e che smetta di soffrire. Poi arriva il giorno e ti senti in colpa anche per averlo solo pensato, le tieni la mano, le parli, lei ti parla perché è lucida, capisce, ti ripete le sue raccomandazioni, per te, la tua vita, per il babbo, per quel che verrà. E in ogni momento senti che te ne vai un poco anche tu, perché non puoi fare niente, perché non c’è nessuno ad aiutarti, perché ti chiedi come mai proprio noi siamo stati scelti per vivere simili sofferenze.

Il 28 febbraio 2020 la mia mamma ci ha lasciati, storditi, incapaci di dare un senso alla vita e soprattutto alla morte. È passato un anno, ancora oggi la sogno tutte le notti che mi parla, mi abbraccia, mi conforta; rivivo spesso quei momenti, mi sento in colpa per non aver saputo fare di più o di meglio, per non averle salvato la vita. La mia mamma era – come tutte le mamme – una persona meravigliosa; averla persa così fa di me oggi una donna diversa, più forte e più debole, certamente più attenta a quello che si muove attorno a noi, alla sofferenza degli altri. Parte dei miei pensieri oggi va a chi è malato, ai familiari che forse stanno vivendo quello che ho vissuto io, all’idea di poter forse essere di aiuto a qualcuno.

Questa è la mia esperienza, che mi accompagna in ogni momento della mia giornata; vi ringrazio perché voi state vicino a chi soffre e a chi ha bisogno di sentirsi dire che andrà tutto bene anche se non è vero, a chi non sa cosa accadrà domani. C’è ancora tanta strada da fare per migliorare le cure e l’assistenza, per dare dignità a ogni malato, ovunque si trovi e in qualsiasi condizione, per migliorare le possibilità di scelta di ogni individuo.

In tanti magari ce la facciamo, un saluto.

Cristina

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