Morfologie n°44 – PSICOLOGIA – LE PAROLE CHE SALVANO

Il passaggio dal pediatra reumatologo al reumatologo dell’adulto resta un’incognita per 3 genitori su 10. Presentata alla Camera la ricerca quali-quantitativa “Fotografia di una Transizione complessa”, promossa da APMARR con la collaborazione di REUMAPED (Società Italiana di Reumatologia Pediatrica) presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati

 

Sin dai primi istanti della nostra vita siamo accompagnati dalle parole, già nel grembo materno iniziamo ad ascoltarle. L’intero mondo delle nostre relazioni si sviluppa intorno all’intreccio comunicazionale con gli altri. Grazie a questa nostra grande capacità, acquisita nel corso dell’evoluzione umana, siamo riusciti ad accedere alla conoscenza, ad esprimere il pensiero ed a tramandare le esperienze. Nella cura, partiamo dalle parole, dal loro valore e dal loro potere. Potere di tranquillizzare, di confortare, di infondere coraggio, di riparare e di curare. “Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé stante, ma sono anche creature viventi” (Marina Cvetaeva). Di questo non sempre siamo consapevoli nelle nostre giornate divorate dalla fretta e dalla distrazione, dalla noncuranza e dalla indifferenza, che ci portano a considerare le parole solo come strumenti, come modi aridi e interscambiabili di comunicare i nostri pensieri. Ma le parole che ci salvano non sono facili da rintracciare e, come diceva Marina Cvetaeva, la grande scrittrice russa, “dalla vita dilaniata dalla solitudine e dal dolore faticoso e febbrile è il lavoro necessario nel trovare parole che facciano del bene”. Oggi, la prodigiosa avanzata delle tecnologie consente di giungere alla conoscenza delle malattie, somatiche in particolare, alla diagnosi e alla indicazione delle cure, con una rapidità inimmaginabile nel passato, ma questo avviene, o rischia di avvenire, senza tenere presente la persona malata, le sue risonanze psicologiche e umane al dolore, e alla malattia. Le parole possono far sperare, possono salvare, possono curare, ma possono anche far del male, e fanno del male i gesti che non sanno testimoniare attenzione e partecipazione per chi soffre il disagio di una malattia. Da qui nasce la speranza.

Ognuno di noi spera in qualcosa. Il paziente spera più di ogni altro. Le parole sono il mezzo più importante per infondere speranza, possono essere di empatia, di conforto, di fiducia e di motivazione. In merito al ruolo delle parole, i recenti studi nel campo delle neuroscienze, ci dicono che “le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica” (F. Benedetti). Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. È questo il concetto chiave che sta emergendo e recenti scoperte lo dimostrano: “le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina.” Fabrizio Benedetti, uno dei massimi studiosi al mondo dell’effetto placebo, descrive un approccio rivoluzionario alla malattia e alla guarigione testimoniando l’importanza delle suggestioni verbali positive per il loro potere di modificare il cervello e l’intero organismo. Si apre uno scenario innovativo in cui le parole di speranza, ingrediente cruciale di ogni terapia, diventano parte integrante della pratica medica. Personalmente ho avuto il privilegio di conoscere il Prof. Fabrizio Benedetti alcuni anni fa, ho seguito i suoi corsi e l’ho ospitato in alcuni eventi di formazione medica. Ecco una testimonianza raccolta nel corso di un suo studio: “A un certo punto, dopo le mie parole di speranza, la sua mano cominciò a muoversi. Poi l’intero braccio. Quelle parti, prima dolenti e immobili, ora potevano muoversi liberamente. Però la cosa che più mi sorprese fu vedere che nel suo cervello, che stavamo scandagliando con un complicato macchinario, (RMf) si attivavano le stesse zone che erano attivate dalla morfina. Eppure non le avevo somministrato nulla. Fu allora che per la prima volta mi resi conto che la speranza aveva attivato le stesse vie nervose del farmaco”. Gli studi ora disponibili, mostrano come le parole e i farmaci abbiano lo stesso meccanismo d’azione. In uno studio, realizzato presso l’Università Claude Bernard di Lione, viene riportata l’importanza delle suggestioni verbali positive e si dimostra come la speranza abbia davvero il potere e la forza di modificare il cervello e il corpo umano.

Questo studio dimostra che quando si ascoltano dei verbi connessi all’attività fisica subito dopo aumenta la forza con la quale si afferrano gli oggetti. In definitiva, un comportamento adeguato, un approccio delicato e sensibile, parole di conforto e fiducia, possono contribuire alla risposta positiva ad una cura. Le parole rappresentano il mezzo più importante per infondere speranza verso il miglioramento della propria salute. Le persone dalle grandi speranze tollerano meglio il dolore. Ma il medico non è l’unico responsabile, molto dipende dal paziente: “è cruciale che comprenda che il suo stato psicologico influisce sulla malattia e i suoi sintomi”, per produrre effetto, quindi, le parole devono essere supportate dalla motivazione del paziente. Possiamo sostenere che le parole di speranza sono un ingrediente cruciale della terapia e, come tali, devono essere parte integrante della pratica medica. Ma di farmaci efficaci a cui non si può rinunciare ce ne sono tanti. Comprendere i meccanismi neurobiologici dell’interazione medico paziente può condurre a una migliore pratica della professione clinica.

Ogni giorno i pazienti, i medici, gli infermieri, i caregiver, hanno l’opportunità di scegliere le parole da dedicare a sé stessi e agli altri. Quando scegliamo parole “sbagliate”, “inadeguate” che possono creare disagio, possiamo riconoscerle e sceglierne delle nuove, migliori, più adeguate, più sensibili o positivamente funzionali a ciò che di buono vogliamo ottenere nell’altro. Nella vita si impara a parlare non solo una volta, ma in ogni momento. “Ogni volta che riconosci che c’è bisogno di una parola buona, di conforto, di speranza, impari un nuovo modo di parlare” (Ilaria Greco). Questo nuovo modo di parlare può essere il primo strumento di cura. Ma, come trovare e come rivivere le parole che salvano e creano relazione? La salvezza non può venire se non dall’ascolto, dall’ascolto del disagio, di quello esprimibile e di quello inespresso, del dicibile e dell’indicibile, che ci dovrebbe accompagnare in ogni momento della giornata, in ogni momento del percorso di cura e in ogni situazione della vita.

di Rosario Gagliardi*

*Fondatore e General Manager di Formedica, Docente di Comunicazione e Management Socio-Sanitario, Dipartimento Studi Sociali ed Economici (DiSSE), Università La Sapienza di Roma, Master MIAS.