Vivere con una malattia reumatica può avere un impatto, anche non trascurabile, sulla vita quotidiana intesa come lavoro, relazioni interpersonali e qualità di vita. I pazienti possono sentirsi soli, abbandonati e provare un senso di impotenza. L’Eular (European Alliance of Associations for Rheumatology) nel corso degli anni ha intrapreso varie iniziative per aumentare la consapevolezza del carico comportato dalle malattie reumatiche sull’esistenza delle persone e per promuovere una migliore presa in carico dei pazienti, ivi compresi il pieno riconoscimento di queste patologie e il sostegno psico-sociale. Molte associazioni pazienti hanno presentato nel corso dell’ultima edizione dell’Eular (Copenhagen, 1-4 giugno) i risultati di alcune ricerche volte ad aiutare le persone a convivere con una malattia reumatica e a favorire l’empowerment dei pazienti.
Joana Vicente ad esempio ha presentato i risultati di una survey (su 1.500 persone) mirata ad individuare i livelli di invalidamento dei pazienti e la mancanza di comprensione da parte dei medici e di altri soggetti, provata dagli adulti con malattie reumatiche. La ricerca ha tenuto conto anche delle relazioni tra invalidità, aspetti socio-demografici, malattia e il suo impatto sulla vita quotidiana e sui risultati sulla salute.
L’86% dei partecipanti alla survey ha riferito sentimenti di invalidamento, soprattutto da parte dei familiari (56%), dei professionisti sanitari (48%), degli amici (39%) e dell’ambiente sociale (38%) con un impatto soprattutto sul benessere psicologico, ma anche sulla scelta di non recarsi dal medico e di una minor compliance terapeutica. Particolarmente colpiti i pazienti affetti da fibromialgia. La survey ha dimostrato inoltre che le persone con un livello culturale maggiore sono quelle che si sentono meno considerate e comprese. Questi risultati insomma dimostrano che il senso di invalidamento e annullamento rimane una fonte di sofferenza che influenza il benessere di un individuo e impatta sul suo stato di salute. Necessario dunque organizzare campagne di awareness e fare attività educative per affrontare questi aspetti.
Alcune ricerche evidenziano che le persone con malattie reumatiche spesso non sanno neppure di poter affrontare con il loro team medico le difficoltà che sperimentano e che possono impattare sulle scelte di trattamento. Una conversazione aperta su questi aspetti potrebbe dunque aiutare a superare questi ostacoli. All’Eular Petra Borsje ha presentato quattro strumenti di aiuto alla conversazione medico-paziente sviluppati da associazioni pazienti olandesi, incentrati su malattia, attività della vita quotidiana, stile di vita, relazioni e benessere. Il tutto è mirato a supportare decisioni condivise sulla gestione della malattia.
Sempre incentrata sull’empowerment dei pazienti, anche la presentazione di Kristine Marie Latocha, dedicata al trattamento per l’insonnia, basato sulla terapia cognitivo-comportamentale (CBT-I) di gruppo, nei pazienti con artrite reumatoide. L’insonnia è un disturbo molto comune nelle persone affette da questa condizione e può esacerbarne la sintomatologia e aumentare la fatigue, la depressione e il dolore. I risultati di questo trial randomizzato controllato hanno dimostrato che la CBT-I, pur non migliorando l’efficienza del sonno e altre misure valutate alla polisonnografia, nel lungo termine produce un miglioramento su una serie di Patient Reported Oucomes (Pro) quali insonnia, disturbi del sonno, fatigue, impatto sulla malattia, depressione, dolore. Un risultato questo che potrebbe avere importanti implicazioni cliniche.
È rivolto invece alle persone con artrite psoriasica Hippocrates, un grande progetto di ricerca internazionale indirizzato a questi pazienti. Obiettivo: favorire la diagnosi precoce di questa condizione nei soggetti con psoriasi e il trattamento tempestivo. Un punto di forza di questo progetto è l’importante integrazione delle associazioni pazienti al suo interno. Lars Werne ha presentato le esperienze dei primi 6 mesi di coinvolgimento dei pazienti in questo progetto, sulla base dei risultati di una indagine e di un workshop online con i ‘Patient Research Partners’ (PRP). I risultati sono stati molto positivi in quanto quasi tutti i PRP sono stati inviati a prendere parte agli incontri e inclusi in tutti gli scambi di email; i pazienti hanno dunque riferito di sentirsi molto coinvolti nei gruppi e nei ruoli loro assegnati. C’è però ancora molto da lavorare in quanto alcuni PRP sono risultati ‘riluttanti’ a far sentire la loro voce e ad essere attivamente coinvolti nelle conversazioni, tenute nei meeting virtuali.
di Maria Rita Montebelli