Morfologie n.38 – RELAZIONE MEDICO-PAZIENTE – Quando la comunicazione … non cura di Rosario Gagliardi

Bisogna prendere consapevolezza del fatto che la relazione medico-paziente è una relazione asimmetrica, nel senso che non vi è una condizione di parità tra i due poli del rapporto; infatti, mentre il paziente si presenta come un soggetto che soffre, spesso conosce poco o nulla della propria malattia e, per questo, richiede aiuto e protezione, il medico riveste un ruolo socio-culturale, di “dominanza”. Tuttavia, pur nella specifica asimmetria che caratterizza la relazione terapeutica, l’incontro medico-paziente si configura come una esperienza interpersonale che supera i limiti di un fatto meramente “tecnico”, in quanto essa implica una serie di elementi non solo razionali, bensì emotivi ed affettivi, che accomunano medico e paziente. L’efficacia della comunicazione riveste un ruolo di primaria importanza non solo tra medico e paziente, ma anche all’interno dei rapporti tra medici e tra tutti gli operatori della salute.

Un recente studio ha messo in risalto l’importanza della comunicazione riportando un dato molto rilevante, relativo al fatto che nel mondo, ogni anno, circa 43 milioni di pazienti subiscono un danno causato da cure sbagliate. Inoltre, è stato visto, che, “una delle cause principali degli eventi avversi è proprio la cattiva comunicazione tra operatori e tra operatori e pazienti”. La conclusione di questi studi, suggerisce che fino ad un errore sanitario su due, potrebbe essere evitato con una buona comunicazione dell’equipe di cura e tra questa ed il paziente. Risulta evidente, alla luce di questi dati, che il ruolo del medico è da considerarsi rilevante non solo per quanto attiene alle necessità di tipo tecnico-scientifico, bensì per le capacità comunicazionali, relazionali ed empatiche. Purtroppo bisogna registrare, che negli ultimi anni, nonostante gli sforzi di portare il paziente al centro del processo di cura, l’affermarsi della medicina tecnologica, ha prodotto una visione sempre più passiva del paziente e il resoconto della sua esperienza sempre più irrilevante. E’ diminuita l’importanza e la rilevanza della narrazione nell’attività clinica.

 

Tale rilevanza è stata circoscritta alla semplice raccolta dei dati, dei segni e dei sintomi. Tutto ciò ha inciso negativamente, sia sul sapere del medico, che su quello del paziente, privilegiando il dato del laboratorio su quello dell’anamnesi, dell’intuito clinico, compromettendo e quasi annullando lo spazio del vissuto. Bisogna dare corso ad una nuova fase, una fase di recupero dei valori fondati sull’approccio non più basato sulla malattia, bensì rivolto a quello basato sulla persona. Nell’era della comunicazione digitale e dei social media, sembra difficile conciliare questa necessità con quanto accade. Infatti, succede con frequenza sempre maggiore che la relazione di cura sia condotta anche a distanza, con l’ausilio di strumenti quali piattaforme digitali, sms, messaggi WhatsApp, nuovi canali telematici per mezzo dei quali il paziente comunica a distanza con il medico curante. L’impiego dei mezzi di comunicazione digitale può essere visto come un contemporaneo simbolo di separazione che allontana il medico dal paziente, ecco perché occorre governare in modo funzionale il passaggio da una comunicazione diadica ad una triadica, nella quale il terzo elemento, il digitale, si inserisce tra medico e paziente.

Occorre recuperare e rafforzare il rapporto di fiducia tra medico e paziente, tenendo conto che “i pazienti ripongono la loro fiducia nelle persone che si prendono cura di loro, che li ascoltano” La fiducia è un’aspettativa di esperienze con valenza positiva per il paziente, maturata sotto condizioni di incertezza, che tende a superare la soglia della mera speranza in cerca di più certezze. Questo è il presupposto per creare una vera alleanza, sia diagnostica, che terapeutica. Nel primo caso significa che il paziente scopre insieme al medico le ragioni della patologia, e gli è più facile comprenderle, nel secondo, invece, condividere il razionale terapeutico e gestirlo con maggiore autonomia. Tale condizione si raggiunge dedicando più tempo alla comunicazione. Non a caso, “il tempo dedicato alla comunicazione con il paziente è da considerarsi tempo di cura” – DL 219 – Art. 1, comma 8 – Quindi, il medico deve iniziare a considerare la comunicazione con il paziente come un primario strumento di cura.

 

 

Liam Donaldson, Direttore medico del National Service inglese e responsabile del dipartimento sicurezza del paziente per l’OMS; Brian Spitzberg dell’Università della California; Riccardo Tartaglia, Direttore Centro Gestione Rischio Clinico Regione Toscana.

  1. Foglia, Nell’acquario. Contributo della medicina narrativa al discorso giuridico sulla relazione di cura, in Resp. medica, 2018, 373 ss.Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e disposizione anticipate di trattamento”). V., in part., l’art. 1, c. 8, ove si legge che «Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura».
  2. Spina, La medicina degli algoritmi: Intelligenza Artificiale, medicina digitale e regolazione dei dati personali, in F. L. Rufo, Social media e consulto medico: tra opportunità e rischi per i pazienti, in Inform. e dir., 2017, 1-2, 383 ss

 

DIDA TESTO: L’affermarsi della medicina tecnologica ha prodotto una visione sempre più passiva del paziente e il resoconto della sua esperienza sempre più irrilevante.