Morfologie n.37 – Le parole per dirlo – Parole di casa di Andrea Tomasini

Le parole che usiamo sono la casa che abitiamo. Credo questo sia un verso di Hafez che ben s’attaglia alla questione attuale. Si pone attenzione crescente al linguaggio e alle parole che si usano per dire le cose e di sé. La parola pronunciata è metà di chi la dice e metà di chi l’ascolta, spiega Michel de Montaigne. Proprio come la casa, il cui contenuto, scelto e organizzato da chi la abita, narra della capacità che ha la persona di organizzare gli spazi e le relazioni tra le cose che dispone in casa. La casa è lo spazio-nesso che si colloca tra dentro e fuori, tra noi e il mondo. Se le cose che abbiamo potessero parlare, ascolteremmo un discorso che narra molto di noi stessi. Ciò che abbiamo scelto di tenere con noi a casa, nelle stanze in cui viviamo – luoghi che ora, in epoca di Covid, frequentiamo più di ogni altro, esponendoli via zoom e skype quali contesti ambientali della nostra videochiamata – le cose che abbiamo e la loro disposizione nell’ambiente sono un modalità narrativa con ci esprimiamo.
La casa è il ritratto di chi la abita. Magari potrà apparire casuale l’ordine, non riflettuto, inconsapevole. Eppure il detective lavora sulla dimensione di involontarietà per ricostruire fatti e intenzioni, procedendo ad analizzare aspetti e oggetti e indizi “sulla scena del delitto”. Osserva e non modifica nulla, per poter registrare lo stato delle cose così come appare e formulare ipotesi interpretative.

Prestare attenzione a ciò che appare involontario non è facile, occorre attenzione, curiosità, capacità di uscire dal proprio punto di vista consueto per imparare a ri-conoscerlo e nello stesso tempo – nel caso di un colloquio, di un dialogo – provare a pensare che chi ti sta parlando possa aver ragione, collocandoti così dal suo punto di vista e da là provare a riconsiderare la questione. Le cose di casa e la loro disposizione così come la parole e la loro organizzazione in discorso sono ponte tra una persona e l’altra. Per varcarlo occorre un ascolto attento cioè la disposizione a comprendere, attività che implica interpretazione, ermeneutica. Martin Heidegger spiegava come l’ascolto implichi la comprensione: quando qualcuno ci dice qualcosa che non riusciamo a intendere lo sollecitiamo a ridire e diciamo: “Puoi ripetere? Non ho capito”.

Non è soltanto la differenza sottile tra udire e ascoltare ma qualcosa di più, che attiene al cuore della medicina, che è disciplina intrinsecamente ermeneutica. Esistono vari tipi di ascolto, spiega Roland Barthes: la semplice audizione che presta attenzione agli indizi e sollecita allarme e reazione, comune a tutto il mondo animale; l’audizione come decifrazione di segni sulla base di codici condivisi – come nel caso della lettura; l’audizione che si concentra non su segnali o codici condivisi, ma che si indirizza su chi parla. In questo caso l’audizione si configura come uno spazio intersoggettivo quasi fisico tra i due. Ancora, con Heidegger, stare “in ascolto di” vuol dire “essere esistenzialmente aperti, nella modalità di essere insieme con gli altri e per gli altri”.

Le scienze umane e in modo particolare la ricerca antropologica sulla malattia e i processi di cura e guarigione condividono un interesse “clinico” con la ricerca medica: nello stesso momento in cui perseguono una conoscenza generale, entrambe si dedicano a persone individuali, episodi di malattia o relazioni cliniche, argomentano nel loro lavoro di ormai quasi mezzo secolo ai vertici della antropologia medica della Harvard Medical School Byron J Good e Mary Del Vecchio Good.

Secondo loro la medicina è attività ermeneutica non solo perché il clinico interpreta la condizione del paziente attingendo da un modello medico, ma anche perché i dati interpretati – le espressioni dei sintomi di malattia che il paziente usa – sono esse stesse soggettive e significative. Il clinico attraversa e interpreta a cavallo di due sistemi di significati: il modello professionale biomedico di malattia (disease) e il modello popolare di malattia (illness). Quello che racconta il paziente a proposito della propria esperienza di malattia è parte di ciò che il clinico interpreta. La persona con illness “è, a un tempo oggetto d’indagine e investigatore nel dramma via via più complesso in cui si trova, per forza di cose coinvolto”: è il senso del lavoro di ascolto e narrazione di malattia di Sacks, che è stato un grande neurologo e nello stesso tempo un consapevole paziente.

L’esperienza de paziente non riflette semplicemente i sottostanti processi biochimici o psicofisologici. La consapevolezza della sofferenza è ricca di significati rilevanti: tutti i sintomi sono intrinsecamente modellati culturalmente e trovano espressione nell’organizzazione del linguaggio, nella scelta delle parole mediante le quali si articola il racconto della propria vita con la malattia, le parole per dirla.

 

DIDA TESTO: “Le cose di casa e la loro disposizione, così come la parole e la loro organizzazione in discorso, sono ponte tra una persona e l’altra”