Le parole che usiamo sono la casa che abitiamo. Credo questo sia un verso di Hafez che ben s’attaglia alla questione attuale. Si pone attenzione crescente al linguaggio e alle parole che si usano per dire le cose e di sé. La parola pronunciata è metà di chi la dice e metà di chi l’ascolta, spiega Michel de Montaigne. Proprio come la casa, il cui contenuto, scelto e organizzato da chi la abita, narra della capacità che ha la persona di organizzare gli spazi e le relazioni tra le cose che dispone in casa. La casa è lo spazio-nesso che si colloca tra dentro e fuori, tra noi e il mondo. Se le cose che abbiamo potessero parlare, ascolteremmo un discorso che narra molto di noi stessi. Ciò che abbiamo scelto di tenere con noi a casa, nelle stanze in cui viviamo – luoghi che ora, in epoca di Covid, frequentiamo più di ogni altro, esponendoli via zoom e skype quali contesti ambientali della nostra videochiamata – le cose che abbiamo e la loro disposizione nell’ambiente sono un modalità narrativa con ci esprimiamo.
La casa è il ritratto di chi la abita. Magari potrà apparire casuale l’ordine, non riflettuto, inconsapevole. Eppure il detective lavora sulla dimensione di involontarietà per ricostruire fatti e intenzioni, procedendo ad analizzare aspetti e oggetti e indizi “sulla scena del delitto”. Osserva e non modifica nulla, per poter registrare lo stato delle cose così come appare e formulare ipotesi interpretative.
Prestare attenzione a ciò che appare involontario non è facile, occorre attenzione, curiosità, capacità di uscire dal proprio punto di vista consueto per imparare a ri-conoscerlo e nello stesso tempo – nel caso di un colloquio, di un dialogo – provare a pensare che chi ti sta parlando possa aver ragione, collocandoti così dal suo punto di vista e da là provare a riconsiderare la questione. Le cose di casa e la loro disposizione così come la parole e la loro organizzazione in discorso sono ponte tra una persona e l’altra. Per varcarlo occorre un ascolto attento cioè la disposizione a comprendere, attività che implica interpretazione, ermeneutica. Martin Heidegger spiegava come l’ascolto implichi la comprensione: quando qualcuno ci dice qualcosa che non riusciamo a intendere lo sollecitiamo a ridire e diciamo: “Puoi ripetere? Non ho capito”.
Non è soltanto la differenza sottile tra udire e ascoltare ma qualcosa di più, che attiene al cuore della medicina, che è disciplina intrinsecamente ermeneutica. Esistono vari tipi di ascolto, spiega Roland Barthes: la semplice audizione che presta attenzione agli indizi e sollecita allarme e reazione, comune a tutto il mondo animale; l’audizione come decifrazione di segni sulla base di codici condivisi – come nel caso della lettura; l’audizione che si concentra non su segnali o codici condivisi, ma che si indirizza su chi parla. In questo caso l’audizione si configura come uno spazio intersoggettivo quasi fisico tra i due. Ancora, con Heidegger, stare “in ascolto di” vuol dire “essere esistenzialmente aperti, nella modalità di essere insieme con gli altri e per gli altri”.
Le scienze umane e in modo particolare la ricerca antropologica sulla malattia e i processi di cura e guarigione condividono un interesse “clinico” con la ricerca medica: nello stesso momento in cui perseguono una conoscenza generale, entrambe si dedicano a persone individuali, episodi di malattia o relazioni cliniche, argomentano nel loro lavoro di ormai quasi mezzo secolo ai vertici della antropologia medica della Harvard Medical School Byron J Good e Mary Del Vecchio Good.
Secondo loro la medicina è attività ermeneutica non solo perché il clinico interpreta la condizione del paziente attingendo da un modello medico, ma anche perché i dati interpretati – le espressioni dei sintomi di malattia che il paziente usa – sono esse stesse soggettive e significative. Il clinico attraversa e interpreta a cavallo di due sistemi di significati: il modello professionale biomedico di malattia (disease) e il modello popolare di malattia (illness). Quello che racconta il paziente a proposito della propria esperienza di malattia è parte di ciò che il clinico interpreta. La persona con illness “è, a un tempo oggetto d’indagine e investigatore nel dramma via via più complesso in cui si trova, per forza di cose coinvolto”: è il senso del lavoro di ascolto e narrazione di malattia di Sacks, che è stato un grande neurologo e nello stesso tempo un consapevole paziente.
L’esperienza de paziente non riflette semplicemente i sottostanti processi biochimici o psicofisologici. La consapevolezza della sofferenza è ricca di significati rilevanti: tutti i sintomi sono intrinsecamente modellati culturalmente e trovano espressione nell’organizzazione del linguaggio, nella scelta delle parole mediante le quali si articola il racconto della propria vita con la malattia, le parole per dirla.
DIDA TESTO: “Le cose di casa e la loro disposizione, così come la parole e la loro organizzazione in discorso, sono ponte tra una persona e l’altra”