MORFOLOGIE 47 – Un triplista d’eccezione, campione in pista e nella vita

Tobia Bocchi, oro nel salto triplo ai giochi europei di Chorzow (2023), dimostra che la malattia non può annacquare l’entusiasmo e mettere i bastoni tra le ruote nella carriera sportiva e nella vita. Una storia di grande ispirazione.

 

di Cristina Saja

“Nello sport come nella vita, la vera sfida è battere il proprio miglior risultato” afferma sicuro Tobia Bocchi, campione di salto triplo che convive da anni con la malattia di Still.
Un campione che ha dovuto affrontare sempre diverse sfide in contemporanea. Per questo Tobia dice di sé stesso che ha disputato competizioni sia contro altri atleti, che contro sé stesso o meglio contro con la malattia di Still, che tuttavia non è mai riuscita a spegnere la sua pa

Tobia Bocchi

ssione per l’atletica leggera e la sua tenacia nel non voler mollare.

La sua storia rappresenta dunque un esempio, che valica i confini dello sport e ha tanto da insegnare e non solo a chi come lui è

alle prese con una malattia reumatologica cronica.

 

Come hai iniziato la tua carriera nel salto triplo e quali sono stati i momenti più significativi della tua carriera sportiva?

Ho iniziato a fare sport sin da piccolissimo: già in prima elementare giocavo a rugby, perché provengo da una famiglia di rugbisti – prima il nonno e poi il papà –. Poi col tempo, il mio insegnante di educazione fisica, Renato Conte ha iniziato a vedere un potenziale in me rispetto all’atletica. Lui è presidente di una piccola società che si chiama FMI Parma Sprint e mi ha proposto, in maniera giocosa, di andare a fare atletica. In pochissimo, mi sono innamorato di questo sport e ho iniziato a praticare seriamente atletica, a partire dalle scuole medie. Dalla prima classe delle scuole superiori ho deciso di interrompere la mia carriera rugbistica per darmi all’atletica. È stato un bellissimo percorso, ricco di tantissime emozioni, durante il quale, ho avuto la fortuna di partecipare ai giochi olimpici giovanili. È una delle manifestazioni più belle alle quali ho preso parte, perché sono inquadrate come giochi olimpici e si tengono una volta ogni quattro anni, ma hanno un aspetto molto più ludico e giocoso, perché non si è ancora professionisti ed è una gara under 18, in cui ci si diverte tantissimo. La ricordo come una delle gare più divertenti, che mi hanno portato tra l’altro in Cina. Nel frattempo, Renato Conte da mio insegnante di educazione fisica è diventato mio allenatore.

 

Quando sei diventato atleta professionista?

Al termine delle scuole superiori, sono entrato a far parte del gruppo sportivo militare dell’Arma dei Carabinieri e da lì la mia carriera sportiva ha preso un’altra piega, con l’ingresso nel professionismo. Un lungo percorso che ho vissuto, riuscendo ad ottenere diverse soddisfazioni tra cui partecipare, nel 2021, alle Olimpiadi di Tokyo ai Giochi Olimpici e poi a diversi campionati europei, campionati del mondo; l’anno scorso ho vinto la Coppa Europa sia in gara individuale che di squadra con la Nazionale di Atletica.

 

Quest’anno come mai l’atletica leggera ha dato spettacolo ed ha emozionato. Cosa distingue questa disciplina dagli altri sport?

Credo che la cosa più bella dell’atletica sia la sua oggettività, nel senso che tanti altri sport raggiungono un risultato oggettivo, ma poi la valutazione individuale è soggettiva. Poi, ci sono sport come i tuffi in cui il risultato è dato da una valutazione: ecco, questo è un tratto comune all’atletica, uno sport in cui ci si può confrontare in maniera oggettiva e potenzialmente anche a distanza e il risultato si baserà su parametri oggettivi. Anche se questa è un po’ un’arma a doppio taglio, perché si tende identificare molto l’atleta con il suo record personale. L’atletica permette di essere in competizione con gli altri e, soprattutto, in gara con sé stessi. È una continua sfida a migliorarsi. Fa quasi strano dirlo, però la sfida è migliorare la propria miglior prestazione e avere la fortuna di riuscire ad allineare tutti i parametri per ottenere la soddisfazione della vittoria.

 

Hai di recente rivelato di essere affetto dalla sindrome di Still. Puoi spiegarci cos’è questa malattia e come ha influenzato la tua vita e la tua carriera sportiva?

La mia prima sfida con la sindrome di Still è stata su un letto di ospedale negli Stati Uniti, nel 2017, quando il dottore mi ha comunicato la diagnosi. Grazie ad una borsa di studio sportiva, avevo iniziato gli studi universitari in America, che ho poi continuato in Italia (Tobia è ingegnere informatico con laurea magistrale, ndr). È stato quello il mio primo incontro con la malattia. Ho iniziato ad avere problemi di salute e sono stato ricoverato in ospedale per quasi tre settimane. Lì mi è stata diagnosticata la malattia di Still. La prima vera sfida è stata quella che mi ha lanciato il medico, quando mi ha detto: ‘questa è la tua condizione, devi mettere in conto la possibilità di non poter tornare più ad allenarti o quanto meno devi pensare di non poterti più allenare a questi livelli’. Dentro di me, debole in un letto di ospedale ho pensato: ‘Ti farò vedere io come, presto o tardi, torno ai miei allenamenti e alla mia carriera sportiva’. Da lì, un percorso tutto in salita durato due anni in cui è stato difficile tornare ad essere quello che ero. Un percorso durante il quale, il ruolo fondamentale è stato giocato dal medico che ancora oggi mi segue – che è il professor Lorenzo Dagna del San Raffaele di Milano – ed è stata una sfida enorme, che sono pronto a giocarmi tutte le volte che mi si ripresenta. Se c’è una cosa che l’atletica leggera insegna, come tutti gli sport, è che dopo una caduta si impara a rialzarsi e a ritornare più forti di prima.

 

Come hai affrontato fisicamente e mentalmente questa sfida? Quali strategie hai adottato per continuare a competere ai massimi livelli nonostante la malattia?

All’inizio, il problema più grande è stato quello del percorso di cure che prevedeva una terapia a base di cortisone. Per me questo significava essere completamente incompatibile con lo sport, perché il cortisone è categorizzato come uno steroide, in pratica doping. Ho provato a far richiesta per ottenere la TUE (esenzione terapeutica ad uso sportivo), ma mi è stata respinta perché la Federazione Anti-doping, neanche in condizioni di vita o di morte come poteva essere la mia situazione in ospedale, permette la somministrazione di cortisone per via orale e dunque rende impossibile gareggiare. A livello burocratico, mi sono dovuto ritirare dal mondo agonistico; ho continuato a prendere cortisone, senza partecipare alle gare. È iniziata, quindi, una ricerca per un piano di cure che facesse al caso mio. Da subito, ho rifiutato di essere la mia malattia. Volevo a tutti i costi continuare a fare sport, a fare atletica. Ho cercato di forzare la mano, di ridurre al minimo il cortisone e continuare ad allenarmi. Ma sotto una certa soglia, si ripresentavano i sintomi della malattia. In uno sport come l’atletica, condotto ad alto livello, dove anche il centimetro conta, non potevo permettermi la sindrome di Still. L’infiammazione delle articolazioni dovuta all’allenamento si sommava alla febbre e all’infiammazione della malattia. Era praticamente impossibile continuare. Il professor Dagna è stato fondamentale: siamo riusciti a trovare un’alternativa al cortisone, cioè un anticorpo monoclonale. Questa via alternativa è stata doppiamente valida: funziona meglio sul controllo della malattia e mi ha permesso di tornare ad allenarmi a livelli agonistici. Mi ha permesso insomma di voltare pagina. Da quel momento in poi, il patto non detto con il mio allenatore è quello di far finta di non avere nessuna malattia autoimmune, come se non fosse vero che io periodicamente devo sottopormi ad una iniezione del farmaco. Mi sono resettato e ho ricominciato.

 

Quali messaggi o consigli vorresti dare ad altri atleti che dovessero trovarsi ad affrontare sfide personali simili alla tua?

Il messaggio che spero risulti implicito dalla mia storia è quello che non bisogna mai arrendersi, nel mio caso fortunatamente questo tipo di malattia non è stata limitante nella vita di tutti i giorni e la sfida è stata fonte di motivazione e stimolo.  La riflessione che faccio sempre, includendo anche l’atletica, è che dal momento in cui un record viene battuto e si dimostra dunque che è possibile farlo, allora tante più persone riescono a raggiungere quell’obiettivo. Io spero che anche nel mio caso sia così: se nonostante la sindrome di Still, io ho potuto condurre una vita regolare, anzi una vita da atleta professionista, allora significa che si può fare e che possono farlo anche gli altri”.

 

TOBIA BOCCHI

Nel palmarès di Tobia ci sono tre argenti nel salto triplo ai Giochi Olimpici giovanili di Nanchino (2015), agli Europei U20 2015 e ai Giochi del Mediterraneo 2022 di Orano. Ma a brillare luminosi come le stelle sono i due ori conseguiti nel 2023 ai Giochi europei di Chorzow, nel salto triplo e a squadre. A settembre 2023 è l’ottavo triplista italiano di sempre, con un personale di 17,26 metri e il settimo al coperto, con 16,89 m. Tobia è stato inoltre campione nazionale assoluto nel salto triplo nel 2021 e due volte campione nazionale assoluto indoor nel salto triplo (2021 e 2023).  Ai campionati italiani cadetti ha inanellato 11 podi, con 7 medaglie d’oro, in dodici finali disputate. Ai campionati italiani giovanili è oro nel salto triplo in tutte le categorie: promesse (under 23), juniores (under 20), allievi (under 18) e cadetti (under 16), mentre sia agli assoluti indoor che ai campionati nazionali universitari è stato vicecampione italiano.